“Dov’è la saggezza che abbiamo

perso in conoscenza?

Dov’è la conoscenza che abbiamo

perso in informazione?”.

 

I versi sopra riportati sono stati scritti da T.S. Eliot nel 1934 e sono contenuti nel brano lirico The Rock che accompagnava i cori di un’opera teatrale commissionata al poeta da un vescovo anglicano. Questi versi sono anche il punto di partenza di una riflessione del past president dell’Istat Giorgio Alleva che apre il Rapporto sulla conoscenza, pubblicato dall’Istituto nel corso di quest’anno.

La relazione fra informazione, conoscenza e saggezza – se letta in questa sequenza – riesce a rappresentare un percorso di elaborazione successiva che consentirebbe, alla fine, di arrivare a un’interpretazione della realtà non solo efficace (ciò che è), ma anche tale da individuare possibili azioni per modificare “saggiamente” la realtà (come dovrebbe essere). L’inversione della relazione – che Eliot certo non approverebbe, avendo dato, non a caso, preminenza alla saggezza, a qualcosa, cioè, di preesistente alla conoscenza e probabilmente molto più vicina alla sofìa dei primi sapienti greci – dice molto sui processi e i prodotti che portano dall’informazione alla conoscenza e sui processi e i prodotti che hanno un potenziale tale da orientare le decisioni in senso politico.

L’abbondanza di informazioni in cui quotidianamente navighiamo ha bisogno di metodi e strumenti per ottenere una conoscenza che, come tale, è il risultato di un processo ordinante delle informazioni e, soprattutto, diventa conoscenza evidente attraverso la sua trasmissione, la sua circolazione, la sua condivisione. Il Rapporto dell’Istat segue, dunque, un tracciato che parte dalla creazione della conoscenza, si sofferma sui meccanismi di trasmissione e ne individua la traduzione operativa (l’uso della conoscenza) in termini di competenze, abilità, applicazioni.

La sistematizzazione di questi passaggi e la sua rappresentazione – è questo, in realtà, il tentativo sottostante alla pubblicazione dell’Istat – può essere ottenuta attraverso la loro misurabilità che è consentita dall’uso di molteplici indicatori, ognuno dei quali costituisce una tessera di un mosaico complesso in grado di ricostruire la trama dei processi conoscitivi e formativi diffusi nella società italiana.

E, quindi, la creazione di conoscenza rimanda alle attività di ricerca e sviluppo, portate avanti da imprese e centri di ricerca, a prodotti come i brevetti, i marchi di fabbrica, il disegno industriale. La trasmissione di conoscenza può essere ricondotta ai livelli di istruzione della popolazione, ai risultati del sistema universitario (i laureati), agli adulti formati all’interno delle imprese, alle competenze (ad esempio linguistiche o numeriche) della popolazione adulta. L’uso della conoscenza può essere posta in relazione con le abilità digitali, con la diffusione di attività culturali, con l’attività di innovazione che le imprese sviluppano per competere sui mercati.

E proprio perché tutti i processi conoscitivi e formativi sono dinamici per definizione (nel senso che trasformano e potenziano chi ne è destinatario, ne ampliano le opportunità), è evidente che il mosaico della conoscenza di un paese è una sorta di proiezione e strumento di previsione per il futuro di una comunità, di un’impresa, di un individuo.

Tra i tanti indicatori messi in fila dall’Istat, qui possiamo porre particolare attenzione ad almeno tre che riguardano in maniera diretta e indiretta il mondo del digitale e il potenziale di crescita economica che si cela dietro lo sviluppo delle competenze più innovative.

Per quanto riguarda la creazione di conoscenza, in Italia, nel 2015, la quota del prodotto interno lordo destinata alla spesa in ricerca e sviluppo è stata intorno all’1,3%, con un incremento di quasi due decimi di punto rispetto al 2007, mentre la percentuale di occupati, coperta dal personale che svolge attività di ricerca e sviluppo, è dell’1,8%. In entrambi i casi ci troviamo sotto la media europea e piuttosto distanti da paesi leader in queste attività come la Svezia, l’Austria, la Danimarca, la Germania. “L’attività di Ricerca e Sviluppo – afferma il Rapporto – svolta nei laboratori di ricerca delle imprese, nei centri di ricerca pubblici e nelle università permette agli attori del sistema economico di accrescere il proprio capitale di conoscenza, realizzare applicazioni per le tecnologie esistenti e svilupparne di nuove”.

Nella trasmissione di conoscenza, l’Istat afferma che “nell’insieme dell’Unione, nel 2015 hanno conseguito un titolo terziario (escluso il dottorato) più di 4,5 milioni persone. Questo flusso rappresenta il 74 per mille della classe tra 20 e 29 anni, popolazione di riferimento utilizzata convenzionalmente per misurarne l’intensità. In Italia, l’indicatore tra il 2010 e il 2016 è salito dal 42 al 57 per mille. Tuttavia, resta significativamente al di sotto della media europea, compendiando tassi di transizione dalle scuole superiori contenuti, tassi di successo inferiori alla media, benché in aumento, e una diffusione relativamente minore della scelta di ottenere una formazione universitaria in età adulta. Questa differenza si dimezza se si escludono i corsi di istruzione tecnica superiore (livello 5 nella classificazione internazionale Isced), molto diffusi in alcuni paesi ma praticamente assenti in Italia e in Germania, dove il flusso dei laureati è analogo al nostro”;

E, infine, per quanto riguarda l’uso della conoscenza, un dato importante è quello relativo agli occupati nelle professioni ICT besuchen sie diese seite. Sempre nel Rapporto si legge: “Alcuni gruppi di individui, per formazione o professione, assumono un ruolo privilegiato nei processi di creazione della conoscenza, nonché della sua diffusione e del suo impiego nelle attività produttive. Tra questi si segnala l’aggregato delle Risorse umane in scienza e tecnologia (Hrst dall’acronimo inglese), formato dalle persone che hanno un titolo universitario e/o lavorano come professionisti e tecnici, e dal gruppo degli occupati in professioni ICT, le cui competenze e attività sono incentrate sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. E si aggiunge: “Il numero di persone nelle Hrst e il loro peso sulla forza lavoro sono cresciuti in tutti i paesi dell’Ue, benché in misura differente. Nell’insieme dell’Unione, hanno raggiunto i 125 milioni, pari al 46,0% della popolazione attiva tra i 25 e i 64 anni (dal 42,3% nel 2011). L’Italia, con il 35,7% (solo l’1,1% più del 2011) è terzultima nella Ue, molto lontana dai valori di Francia (50,5%) e Germania (48,4%), e distaccata anche rispetto alla Spagna (43,4%)”.

“Sotto la media” e Italia “lontana” dai paesi leader europei è ciò che salta agli occhi nella lettura trasversale dei dati di questi tre indicatori. Ma è proprio lo spazio che separa l’Italia dagli altri paesi, il terreno su cui ricostruire processi formativi e conoscitivi che possano esorcizzare il rischio di “degrado” contro cui ci ammoniva Eliot.

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